Un pezzo alla volta

Dieci anni fa oggi — giorno più giorno meno — uscivo dalla casa di Pietralata per l’ultima volta e, dopo aver finito di caricare la twingo velvet (“Ci starà tutta la mia vita in macchina? Non sarà troppo pesante? E se mi fermano i ladri e mi rubano tutte cose?”, mi domandavo nei giorni precedenti, vagando di sgomento per le terre tiburtine), esalai il penultimo respiro, verificando che avevo malcalcolato i libri, libri sempre questi libri, e dovetti prima passare dalla posta di Piazza Bologna per spedirne alcuni pacchi a Palermo (“Ma ti servono proprio tutti?”, mia madre, al telefono) ritardando così l’addio di altre eterne ore, Roma non mi voleva proprio lasciare andare, no no no, ma poi partimmo sì sì sì, al plurale, ciao ciao e tante care cose,

e attraversammo Lazio, Toscana, Emilia Romagna e poi su su su, il piano fallito prevedeva la sosta a Lione invece fu Aosta e la mattina dopo prendemmo la rincorsa sul versante italiano del Monte Bianco che era tutto un grigio e pioggia e cupezza italiana e dopo gli 11 km uscimmo dall’altro lato che era sole, cielo azzurro e uccellini e soavità di Francia e dopo qualche ora di autostrade larghissime e paesaggi incontaminati e vuoti (“Ma dove cazzo vivono i francesi?” “Ai lati” “Ah ecco perché parlano sempre col culo a pizzo”), finalmente il périph che mi ingannò, così apparentemente rilassato in confronto al brutalism coatto del raccordo anulare, e anche se ancora non parlavo una parola di francese (“yo hablar francés un día”) e le cose si sarebbero assai complicate verso la fine della seconda stagione e l’inizio della terza, e lì per lì chi aveva voglia di pensare ai nuovi discutibili personaggi disagiati che avrei incrociato e alle storyline tutte uguali di emigrazioni oh oh oh che sofferenza oh oh oh mi manca la madrepatria oh oh oh lu sule lu mare lu ientu

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quando invece l’ingresso a Parigi dalla Porte d’Italie passando per Avenue d’Italie e Place d’Italie (“Ma che è, una persecuzione?” “Ma no, è solo destino”) si svolse in un clima di festosa fanfara, i semafori verdi e rossi ma non arancioni (“Non ne hanno bisogno, è gente civilizzata, sanno quando dire basta”), e le strade larghe larghe e senza traffico, ma quale Prenestina e Tuscolana, ci consegnarono dritti dritti alla prima casa parigina, i furon 21 mq di Place Monge, sesto piano senza ascensore, senti come suona bene?, se-sto-pia-no-sen-za-a-scen-so-re, la cucina in bagno e viceversa, che bella la rive gauche dov’è Isabelle Huppert dov’è Louis Garrel dov’è Jérémie Elkaïm (“Ma io voglio andare a rive droite voglio fare le occupazioni” “Le farai, le farai”), 21 mq a due passi dalla moschea, nemmeno il tempo di parcheggiare e una mendicante con qualcosa nel cappello vedendo la mia faccia mi parlò direttamente in arabo e io sorrisi e mi sentii diciamo a casa

e poi, portando la mia vita dalla twingo al se-sto-pia-no-sen-za-a-scen-so-re, all’ennesimo su e giù sommato ai due giorni di viaggio (“Si è rotto il giradischi” “Sarà stata quella frenata a Roncobilaccio”), su un pianerottolo di legno odoroso ebbi quel che oggi mi vien da dire un mancamento, ma le scale erano così strette di charme simil germanopratino e di trappole per topi che non riuscii nemmeno a svenire, mi sorresse la finestrella aperta sui troppi tetti della città, quel poco d’aria necessaria a certificare il salto dell’intercapedine tra i due mondi, rester vertical et revenir enfin sur terre, e non lo sapevo ancora ma avevo un piano, e il piano era andare verso Nord per perderlo, il Nord, e la bussola, e l’orientamento e tutte cose, e poi, con calma, rifare il puzzle daccapo, un pezzo alla volta, magari sarebbe andata meglio, ma intanto, dieci anni fa oggi, c’era da finire un trasloco, sì, un pezzo alla volta.

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