Una specie di bilancio

E persino una città come Parigi, ossessionata dalle facciate pulite, no panni stesi, no antenne, no balconi, no niente, quest’anno si è lasciata un po’ andare. Alcune scritte sono rimaste più a lungo, il presunto decoro poteva attendere o, semplicemente, anche i censori erano esausti.C’è l’ancien monde all’esterno di una banca, nei giorni delle proteste, quando la paralisi generale dello scorso inverno ci pareva il problema più grande; c’è l’immonde d’après di uno dei miei posti preferiti della città, poco dietro l’amatissima libreria Le Monte-en-l’air dell’amatissima Ménilmontant; c’è la prima immagine dopo tre settimane consecutive di casa, il lenzuolo con la proposta di matrimonio all’immaginiamo bel Jeremy; c’è la rivendicazione di essere qui je suis lasciata così, sul marciapiede, fatene quel che volete, i fondamentali.E poi. C’è il saluto dei marinai palermitani nei giorni del Festino, il primo Festino senza il Festino, raffinata figura retorica che, mi piace pensare così, sapeva di esserlo; e c’è l’afasia di quei giorni di settembre, davanti a quelle lettere scomparse, o dimenticate. Gentilezza e atti di bellezza. Un imperativo sospeso nel vuoto, cliffhanger sugli orrori moltiplicati dell’ultimo biennio: l’unico rimpianto è non essere tornato in quella traversa di via Roma con i secchi di vernice bianca e un grande pennello. Chissà, magari sono ancora in tempo, a Palermo si è sempre in tempo.