Come vi passano tuttecose

Ogni volta che torno a Palermo e provincia temo di ritrovarla infighettita, gentrificata, falsificata, e penso a cose tragiche e definitive tipo Ridatemi Via Maqueda lorda e inavvicinabile ma insomma dove andremo a finire con tutti questi tavolini e questi turisti Orlando sei contento?,

e infatti l’altro giorno nel supermercato di un paesino sperduto dove perse le scarpe Gesù bambino ho trovato nel reparto frigo una confezione di “solo albume per allenamenti proteici” e un brivido mi ha attraversato (“Stanno arrivando”),

ma poi mi basta fare quattro passi in una stradina laterale e sentire l’odore di pranzi fritti e voci buttate, o andare in un mercatino rionale, per tranquillizzarmi meglio di dieci sedute su Calm: ieri un venditore di pianticelle aromatiche ha visto che non ero di qui e mi ha salutato con un piacevolissimo “Ddddottore se le prende tre piante? Una gliela regalo”,

e io ho sorriso e ho pensato Che bello a Parigi nessuno mi chiama Ddddottore con quattro dddd, e poi c’era un altro venditore talmente schiantato dall’afazza arraggiata che stava sdraiato sul sedile posteriore della macchina-magazzino e parlava da due metri di distanza con la signora che chiedeva uno sconto su un pacco di mappine colorate e lui diceva “Signora facesse quello che vuole, io qua non me la fido più”,

insomma tutto questo per dire che quando siete preda di paure e preoccupazioni sul futuro, sulle varianti, sulla Nazionale di calcio che si inginocchia se ti inginocchi tu, sulle polemiche social, su tutto, beh il mio consiglio è: pigliate un aereo, andatevi a fare una camminata a Palermo e vedete come vi passano tuttecose.

Parigi, traumi

Nei primi giorni a Parigi, quando non parli bene francese, una delle cose più intimidenti è andare a comprare il pane. Dimenticate i film di Rohmer in cui le panettiere svolazzano e cantano e sono adorabili. No, le panettiere parigine sono capaci di qualsiasi cattiveria, e quando dico cattiveria intendo proprio una lezione di fonetica tra un croissant e un financier al pistacchio, malgrado la fila che arriva fino all’Arco di Trionfo. Chiedete in giro, avrete molte conferme.

Forse non dovrei confessarlo in pubblico, ma noi che ci ostiniamo a vivere in questa città ogni tanto condividiamo i nostri traumi con, ehm, le baguette. Proprio ieri una mia amica mi ha confessato che una volta uscì piangendo da una boulangerie perché aveva osato chiedere “un baguette”, al maschile, e la panettiera era rimasta scandalizzata (“Forse intende UNE baguette”) nel modo in cui si possono scandalizzare i francesi, ossia partendo con una tirata insopportabile e non richiesta sugli articoli indeterminativi e già che c’era anche sui partitivi (“Ci ho messo un mese a rimettere piede in una boulangerie, ero devastata”).

Potremmo chiamarlo Painsplaining ma la verità è che riguarda parecchi francesi, di ogni ordine e genere, in tutti i campi, ovunque: Frenchsplaining è più corretto. Chiedete in giro, avrete altre conferme. Il mio trauma invece è questo: ogni volta che andavo, la tipa mi chiedeva “Et avec ceci?” (“qualcos’altro?”). L’angoscia fatta domanda, anche perché il mio vocabolario era ancora fermo a soleil, coeur, amour e quindi capivo “Avec SOSI’?”, e mi venivano in mente buffe parole siciliane a caso che mi facevano precipitare in uno stato di confusione totale (“‘u mari, ‘u suli, ‘a sosizza”) finché la panettiera, che ovviamente ci godeva assai, chiudeva la conversazione con un infastidito “BON, un euro e dieci”. Ancora oggi, quando mi chiedono “Et avec ceci?” un brivido mi attraversa la schiena. Ovviamente il fatto che siano passati più di dieci anni è solo un dettaglio.

La Francia di Macron S04

20 Marzo 2021

Da oggi, chi abita a Parigi e in altri pezzi di Francia, per le uscite giornaliere dovrà esibire un’attestazione in cui dichiara che “io sottoscritt* posso stare in giro in un raggio di 10 km, senza limiti di tempo”. Senza. Limiti. Di. Tempo.

Ecco dove siamo precipitati: la Grande Nazione, madre di gente come Cartesio, Molière e Charlotte Gainsbourg, dopo un anno di pandemia riesce a concepire la cosa più CRETINA di sempre: un pezzo di carta (o una schermata) che attesti che, in base alle stesse disposizioni decise dal governo, io posso stare all’aria aperta quanto mi pare (“E allora cosa dobbiamo certificare?”) (“Non so, forse Stocazzo?”) (“Signor Poliziotto, mi dica che si rende conto anche lei che questa cosa NON HA SENSO”).

Ma siccome siamo “sempre la Francia”, qualcuno deve aver tirato la campanella anti-connerie e ora, dopo manco mezza giornata stanno già pensando di eliminarla per cambiare per l’ennesima volta le disposizioni (d’altronde prima non avevano avuto il tempo di rifletterci abbastanza, è arrivato così all’improvviso questo TERZO lockdown). Le Monde dice che si pensa di “semplificare” la procedura. Forse non servirà più l’attestazione, “basterà avere una carta d’identità per uscire”.

La Francia di Macron S04 episodio sfinimento

2 Marzo 2021

E poi ci sono giorni in cui il Paese in cui vivi assomiglia a Paesi in cui hai vissuto (Francia, Italia). Da cui: tutto il mondo è paese? Non so, di sicuro le destre si assomigliano un po’ tutte. Le sinistre, invece, sono infelici ognuna a modo suo.

L’ex presidente della République Sarkozy è stato condannato in primo grado a tre anni per corruzione, di cui uno da scontare in prigione. Ma alla fine lo passerà ai domiciliari con il braccialetto elettronico. Nel 2015 Sarkozy twittava contro le misure alternative per le pene superiori ai sei mesi. Oggi il suo profilo twitter è, come dire, muto.

Il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, ha commentato la notizia con il solito stile dei macroniani. Avrebbe potuto, che ne so, dire “aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso” o, meglio ancora, tacere. Invece Darmanin ha pubblicamente difeso Sarkozy “per le grandi cose che ha fatto per il nostro Paese”. Giusto per ricordarne una: secondo l’accusa, Sarkozy e il suo avvocato avrebbero comprato due schede telefoniche prepagate e intestate a un certo Paul Bismuth per dedicarsi “alle grandi cose per il nostro Paese” (dalle intercettazioni su queste linee si è potuto costruire il castello accusatorio della corruzione a un giudice). Ricordo anche che Darmanin fu nominato a “primo poliziotto di Francia” (così qui viene volgarmente chiamato il ministro degli interni), malgrado delle accuse molto serie di “stupro” e “molestie sessuali”. Nessuna condanna, ma una seria questione di opportunità. Di sicuro c’è gente che è dovuta scappare a Sant’Elena per molto meno.

Ma il sostegno di Darmanin a Sarkozy (e al suo fedele elettorato) non è casuale. Tra un anno si vota per le presidenziali. Alcuni sondaggi danno un testa a testa al 50% tra Macron e Marine Le Pen. Cinque anni fa Le Pen era addirittura favorita. Poi sappiamo come è andata. Ma in giro c’è un diffuso e trasversale sentimento anti-Macron. Altro che dottrina politica oltre la sinistra e la destra. La sua è stata una presidenza di destra e basta: disagio sociale, povertà, violenze della polizia, migranti, uno sciopero generale che ha paralizzato il Paese per un mese e mezzo prima del Covid. Su tutto, una visione politica di continuo disprezzo verso le opposizioni e la popolazione: basterebbe mettere in fila le bugie, le dichiarazioni dementi e gli atti illogici nella gestione della pandemia, specie nella prima fase, per avere un quadro del disastro di questa presidenza.

Ovviamente Macron sente il vento in poppa ed è convinto di battere Le Pen con l’ennesimo ricatto morale delle nostre vite: non vorrete mica far vincere i fascisti? Voilà la fine dottrina politica a cui giusto Renzi può ispirarsi. Negli ultimi giorni Libération ha fatto due prime pagine consecutive sul rischio che il giochetto stavolta potrebbe non funzionare. A sinistra e al centro c’è molta gente che potrebbe astenersi o non votare Macron obtorto collo. Non per far vincere i fascisti, ma per sottrarsi a un pattern malato che va avanti dal tragico Chirac-Le Pen padre del 2002. O anche per far saltare il banco, perché no. I macroniani ne hanno approfittato per accusare la sinistra di voler fare il gioco dei fascisti, ma insomma la République, ma insomma che scandalo, ma insomma i valori, ma insomma vergognatevi. La solita storia. Da una parte si prova a spiegare. Dall’altra, beh dall’altra, ognuno completi la frase a suo piacimento. Alla fine, se le cose restano così, credo comunque che Macron verrà rieletto perché i fascisti no no no. Però un anno è lungo, molto lungo. La storia recente, diciamo dal 2015, ci sta urlando in faccia che tutto quello che può andare storto finirà peggio. Resta da capire cosa è peggio di peggio.

Ladro lui, ladra lei

Luigi Zampa – Ladro lui, ladra lei – 1958

Cencio (Alberto Sordi) è a Regina Coeli. Un giorno sua madre e Cesira (Sylva Koscina), una ragazza di cui è innamorato, vanno a trovarlo. Anche il fratello di Cesira è in galera.

Dopo i saluti di rito Cesira chiede a Cencio: Ma mio fratello non viene?

Cencio: Eh no, l’hanno trasferito al carcere di Civitavecchia, non lo sapevi?

Cesira: No…

Cencio: E come no? Non s’è voluto fare il vaccino. C’hanno fatto il vaccino, ma’

Madre: E perché v’hanno fatto il vaccino?

Cencio: Dice che fuori c’è l’asiatica, non vuole uscire più nessuno… Forse tra poco ci sarà un’amnistia e allora… (si interrompe, guarda Cesira con occhi innamorati) Cesi’ ma quanto sei bbbella

(Era il 1958)

Manuale svelto svelto per chi come me in giorni di pioggia e pandemia

Manuale svelto svelto per chi come me in giorni di pioggia e pandemia deve prendere per motivi di lavoro le metropolitane di città che una volta movimentavano milioni di persone e oggi molte meno ma comunque abbastanza per gettarci nel panico ogni volta che qualcuno dà un colpo di tosse.

Scegliere sempre l’ultimo vagone tutto a sinistra del binario o l’ultimo tutto a destra (ovviamente non sulle linee che si fermano ai piedi delle scale).

Entrare nel vagone e fare subito un giro di OCCHI PAZZI per individuare:
-malati mentali
-gente con mascherine altermondialiste fatte di tessuto, boh, omeopatico
-gente che mangia (mandarini, biscotti, caponatine etc)
-gente che continua a scambiare i vagoni per centri estetici un po’ così e si taglia le unghie perché, ehi vuoi mica dirmi cosa posso e non posso fare?
-gente che ritiene opportuno portare le mascherine lasciando il naso scoperto
-gente che ritiene opportuno abbassare la mascherina per soffiarsi il naso, fare quel che deve fare, e poi rimettersi la mascherina, così, senza gel ma con una faccia tosta che si meriterebbe di essere presa a ceffoni per sempre

Finito il giro di OCCHI PAZZI, se nessuno di questi casi si verifica, mettersi nel punto più lontano da chiunque e pensare alle cose belle tipo, boh, una passeggiata al mare, Jean-Pierre Bacri, Mia Ceran.

Se si verifica un solo caso, iniziare a fare su e giù per il vagone fingendo di cercare qualcuno che in realtà non esiste.

Se si verificano due casi, allarmarsi tantissimo e cambiare vagone alla prima fermata utile e ritornare alla casella di partenza (OCCHI PAZZI etc).

Se si verificano tre o più casi in due o più vagoni consecutivi iniziare a correre fortissimo in qualsiasi direzione finché non spunta un varco spazio-temporale per l’universo parallelo in cui in questo momento siamo tutti tristi e infelici ma per i noiosi motivi di prima.

Come all’epoca si faceva

A quanto pare la prima volta che un tg del servizio pubblico francese ha dato la notizia (“Un misterioso virus”) fu il 18 gennaio del 2020, un sabato mattina come un altro. Non ho ricordi molto precisi di quel weekend (perché dovrei averne, dopotutto?), se non che il pomeriggio andammo a una mostra di Peter Hujar al Jeu de Paume, che camminammo a lungo alle Tuileries e che la sera mangiammo in uno di quei bistrot discutibili di cui all’epoca ero solito lamentarmi.

Qualche giorno dopo, un mercoledì, mentre sudavo sul vogatore della palestra, mi venne in mente che l’indomani ci sarebbe stata la presentazione di un volume di Link per cui avevo scritto un pezzo, e mi parve una buona idea decidere di andarci, dato che non lo avevo mai fatto. Tornai a casa, feci i biglietti del treno e prenotai una stanza in una casa vicino ai Navigli. La mattina dopo, all’alba, ero sul treno Parigi-Milano, il pomeriggio entravo in questa casa che si sarebbe rivelata una casa di pazzi precisi, e la sera ero alla libreria Verso gremita di gente, a salutare vecchi amici e a conoscere finalmente colleghi e vicini di indice come Luca, Fabio, Stefania, Arnaldo, o persone come Diletta e Tommaso che erano venute semplicemente ad assistere alla presentazione, come all’epoca si faceva.

Malgrado una certa ormai consuetudine a parlare in pubblico, quando mi passarono il microfono ebbi qualche momento di incertezza, per due motivi: uno) ero seduto su uno sgabello scomodissimo in cui non sapevo che farmene delle gambe (“Accavallo come fossi a Galagoal?” “Cerco di restare in equilibrio tenendo però le gambe aperte e facendomi accusare di manspreading?”); e due) la persona che avevo di fronte era Franco La Cecla, uno che incute timore già dal nome (fran-co-la-ce-cla), figuriamoci averlo davanti. E così, mentre parlavo (“euheuh sì lo zapping è ancora necessario, in fin dei conti cos’è che facciamo quando saltelliamo di story in story su instagram?”), decisi di rivolgermi esclusivamente a una ragazza seduta tra il pubblico che annuiva a-ogni-mia-parola e tutto andò per il meglio (quasi tutto: alla fine avrei voluto fermarmi a parlare con La Cecla di Palermo, Parigi e delle conoscenze in comune, ma La Cecla era già altrove, là, ovunque). Poi chiacchierammo, bevemmo, e finimmo a mangiare una bella pizza crudo e rucola a mezzanotte passata, all’epoca si faceva.

Prima della partenza, il sabato, decisi di consumare le poche ore libere girando per librerie. Finii al Libraccio e, mentre cercavo sotto la L un romanzo di Lethem, trovai un libro proprio di Franco La Cecla: Falsomiele: Il diavolo, Palermo, edito da due punti, una piccola casa editrice con sede nientemeno che in via Siracusa a Palermo. Mi sembrò una giusta coincidenza e lo comprai, assieme a una vecchia edizione di un libro di Yates. 

Andai alla stazione, mi sistemai sul treno, mi lamentai tra me e me dei bambini, dell’aria condizionata, della gente, di tutto, e poi iniziai a leggere il libro di La Cecla. In esergo c’era un lungo estratto da un romanzo di Juan José Saer, L’indagine. Fu una folgorazione, mi parve una delle cose migliori che avessi mai letto sull’essere adulti e su quella che chiamiamo terra natale. Sembrava scritta apposta per me, sempre un po’ di qua e un po’ di là, laterale e sullo sgabello, transalpino in un senso e transalpino nell’altro. E così, mentre il treno si dirigeva verso la frontiera con la Francia, pensai che quelle poche ore a Milano erano state proprio belle, le coincidenze, le chiacchiere, e i libri come al solito a fare da collante alla vita, alle persone, alle cose veramente spensierate, come all’epoca si faceva.

A Parigi non esistono i citofoni

In questi giorni ho rivisto il ciclo dei cinque film di Antoine Doinel. Ri-colpo di fulmine per Baisers Volés (Baci rubati, 1968). A parte l’amore inesauribile per Jean-Pierre Léaud, a parte lo splendore di Delphine Seyrig e la sorpresa di ritrovarci un già imponente Michel Lonsdale, due cose più di tutte mi hanno colpito:

1) La caserma in cui si trova all’inizio del film Antoine è a pochi minuti a piedi da casa mia. Così l’altro giorno sono andato a scattare una foto il più possibile vicina all’originale. Tutto uguale, come spesso capita a Parigi, tranne il semaforo, che all’epoca non c’era. In realtà, per mettermi davvero nei panni di FT, avrei dovuto bussare a un citofono del palazzo di fronte, salire all’ultimo piano e scattare la foto dall’alto. Il problema è che a Parigi non esistono i citofoni. 

2) A un certo punto Antoine va a lavorare in un’agenzia investigativa. Un giorno scoppia una bagarre tra un cliente e tutti gli impiegati. Una di loro va a chiamare un dentista del piano di sopra per farsi aiutare (la segretaria apre la porta dello studio portando degli occhiali da sole, tf). Il dentista arriva e molla due ceffoni al cliente. Segue molta confusione ma soprattutto questo: Jean-Pierre Léaud inciampa, cade (nel frame in alto si vede l’inizio del volo) e scompare dall’inquadratura. L’attore che interpreta il dentista lo vede cadere (fuori scena) e si mette a ridere. La scena poi prosegue senza più traccia di Antoine. Basta questo per spiegare perché da giorni non faccio altro che risistemarmi il ciuffo che peraltro non ho, come Antoine? Io dico proprio di sì. 

E adesso torno ad ascoltare Que reste-t-il de nos amours, per il resto dei miei giorni.

Paris c’est quoi? Paris c’est qui?

Qualche mese fa, una persona che stimo mi ha sorpreso scrivendomi che le dispiaceva che partivo per Palermo perché quando parto per Palermo ha sempre l’impressione che poi non torno a Parigi e così Parigi perde qualcuno di bello. Sono rimasto senza molte parole perché non sappiamo mai come ci vedono gli altri da fuori e, soprattutto, non è così frequente che la gente dica le cose belle. Il primo gennaio 2021, verso sera, stavamo camminando a piedi senza meta e a un certo punto ci siamo fermati nei pressi di place des Vosges, che piace sempre a tutti ma a me insomma. E invece quella sera mi è parsa magnifica, i portici, questa piccola rue de Béarn, il giallo dei lampioni, il freddo che trasi ‘ndallossa, il silenzio. Il silenzio. E, mentre scattavo questa foto, mi sono tornate in mente le parole della persona che stimo e poi ho pensato che dopo tanti anni ancora mi chiedo, come in quella vecchia canzone: Paris c’est quoi? Paris c’est qui?

Visioni di un anno pas comme les autres

Quando arrivai a Parigi, mi sembrò subito di essere nel paese dei balocchi grazie a una piccola tessera plastificata di 8×5 cm: per una ventina di euro al mese potevo andare al cinema tutte le volte che volevo. E quando dico tutte è: tutte. Ci sono molti modi per imparare a conoscere una città, uno dei miei è stato entrare in sale da dieci posti, da cinquecento, in periferia, in centro, sale di prime e seconde e terze visioni, sale con cinefili, sale con psicopatici, sale con Louis Garrel tra gli spettatori.

La smetto subito con la retorica di quanto è bello andare al cinema però si è capito: l’anno scorso sono tornato ai livelli di quando ancora non avevo scoperto l’Aurora di Tommaso Natale. Una pena. Solo quattro volte, me le ricordo tutte. Due a Parigi a gennaio. Una a Milano sempre a gennaio, in occasione dell’ultima cosa pazza fatta in vita mia: all’Odeon (o era l’Orfeo?) ho visto Hammamet di Amelio chiedendomi come si potessero tenere assieme la migliore interpretazione di Favino della sua carriera (nel senso che non ti viene mai da chiedergli: Favino ti levi per favore?), e la peggiore performance della storia del cinema di tutti i tempi (l’altro, coso, il co-starring). L’ultima volta a Palermo, un giorno uggioso di settembre: al Rouge et Noir (dove sennò?) ho visto Le sorelle Macaluso di Emma Dante. In sala c’erano due mamme con cinque bambini (che durante il film correvano indisturbati per la sala) e alla fine del film una delle due donne disse: Che pesante, mi aspettavo più risate. Io la guardai, la odiai, dissi: Madame, le cinéma n’est pas un parco giochi, la honte! E me ne tornai su via Maqueda, sdegnatissimo.

Dice: e che hai fatto in tutto il tempo che non sei andato al cinema? Ho visto altri film, tanti film. Piattaforme, streaming. Ma anche diversi festival che altrimenti mi sarei perso: Annecy, Torino, Divergenti. Ho compensato il dolore dello schermo piccolo e obbligatorio (esempio: sarebbe stato meglio vedere Days di Tsai Ming-Liang in sala? Risposta: CHE DOMANDE) (ok, sono una di QUELLE persone che scassa il cazzo con l’odore della carta, spegni quel telefono, dove andremo a finire) (ma leggo anche su kindle e sono abbonato a Mubi) con la scoperta random di gente sconosciuta, o la riscoperta di classici mai visti, o la re-visione completa dei miei confort-film, nei giorni più cupi.

Ho smesso di fare bilanci quando hanno chiuso splinder e un’orda di dilettanti è arrivata alle porte della città, ma stavolta mi pareva giusto fare un’eccezione. I tre film a cui ho pensato e ripensato, senza sosta, sono: Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman (la scena del bacio, quelle mani; la scena del karaoke con gli amatissimi A Flock of Seagulls); Sin señas particulares di Fernanda Valadez (la scena della rivelazione finale; il fuoco; la testa che va a Ma’Rosa di Brillante Mendoza); Ema di Pablo Larraín (ancora il fuoco; Mariana Di Girolamo, qualsiasi cosa faccia Mariana Di Girolamo, ho già detto Mariana Di Girolamo?).

Tra le serie, cito quelle che mi hanno influenzato per le cose che penso, scrivo, faccio, per il mio lavoro e non solo: l’ultima stagione di BoJack Horseman, il solo, unico, vero capolavoro della piattaforma che non voglio manco nominare (e sempre grazie a A., che ha dovuto convincermi a guardarla anni fa, io così scettico; e ora invece indosso una maglietta del mio amico Mr. Peanutbutter, oh oh oh); la prima stagione di Industry(BBC2/HBO), sottovalutata all’inizio per lo specchietto trito del sesso e del full-frontal e invece interessante e divertente declinazione dell’intersezione Potere/Denaro/Umiliazione (con una colonna sonora che avrei voluto impilare io, io, io; e un Harry Lawtey da cui vorrei prendere lezioni di danza); la prima stagione di We are who we are (HBO), serie sgummata e sbilenca, ma che non assomiglia a niente di già visto (qualcosa vorrà dire)(oh, quanto avrei dato per essere nella writer’s room con Guadagnino, Giordano e Manieri); e poi le tre stagioni di High Maintenance (HBO, 2016–2019) che, viste da questa parte della barricata, dicono parecchio su cosa e come eravamo, noi come occidentali con i nostri problemi da primo mondo viziato e dolcissimo. Curioso di scoprire cosa verrà, dopo.