Facciamo che entra

L’altra mattina, sul lungomare-che-non-c’è di Palermo, alcuni ragazzi giocavano a basket. A un certo punto uno di loro ha provato un tiro da tre difficilissimo. L’attimo si è cristallizzato, e così il cielo, il riverbero del sole, i clacson in sottofondo. Ognuno sperava qualcosa di diverso, io scattavo questa foto: il pallone entrerà o non entrerà? Il ragazzo esulterà o si dispererà? Era l’ultimo tiro prima di tornare a casa o continueranno a giocare? Non so perché mi è venuto in mente il 2022, ho pensato Dai, facciamo che entra.

Ho visto quarti, semifinale e finale

Ho visto quarti, semifinale e finale degli Europei a Palermo, sempre nello stesso posto, nello stesso punto dello stesso marciapiede della stessa piazzetta, scroccando il maxischermo di uno dei bar della mia giovinezza, abbracciato a uno di quegli ombrelloni enormi, per stare più in alto degli altri, mentre sconosciuti a caso lo bilanciavano dall’altra parte per evitare di ballare troppo: le notti erano eterne, non ancora magiche.

Ho visto quarti, semifinale e finale in una bolgia che man mano bruciava sempre di più, soffrendo quando tutto sembrava perso, sperando quando tutto sembrava fatto. Non ho cantato l’inno, ma ho previsto Bonucci in finale (“Ma non vale, tu lo nomini sempre quello, a prescindere”), mi sono lasciato definitivamente sedurre dall’intelligenza tattica di Mancini (“Cristante? Viva Cristante”), ho sorriso con Mattarella e pensato Minchia che angoscia, sempre angoscia quanta angoscia, mai una cosa bella facile facile nei novanta minuti. Ho resistito resistito e resistito al facile insulto contro gli avversari ma poi, finale oblige, mi sono dimenticato di tutto e ho urlato Suca all’odioso numero tre dell’Inghilterra, Cornuto all’arbitro e Dovete buttare sangue un po’ a casaccio.

Ho visto quarti, semifinale e finale nel ventre di Palermo, l’unico luogo a cui appartengo, mio malgrado: così è. Tre partite, in mezzo a ladri, poeti, nobili, teppisti veri e altri volenterosi che mai lo saranno, e poi amici, conoscenti, sconosciuti. Ho visto fuochi d’artificio prima del tempo, esibizioni di moto truccate in mezzo ai rigori, turisti stranieri sgomenti di gioia altrui, dopo tutto.

Ho visto gente pregare, piangere, coprirsi gli occhi con le mani, come nei film di paura. Ho visto facce bellissime, le stesse che ritrovo negli anfratti più sordidi della città, ho visto un’Ape con una quindicina di persone a bordo e un bimbo di pochi anni lanciato in aria come il trofeo che non avevano mai avuto. E poi, quando tutto era abbastanza, sono tornato indietro a recuperare la macchina, camminando piano, sorridendo, scuotendo incredulo la testa. Il posteggiatore se ne stava da solo, in questa viuzza laterale e silenziosa, fuori dal mondo. Poteva essere qualsiasi momento di qualsiasi tempo, invece lui mi ha chiesto C’è bordello in centro, vero?

Come all’epoca si faceva

A quanto pare la prima volta che un tg del servizio pubblico francese ha dato la notizia (“Un misterioso virus”) fu il 18 gennaio del 2020, un sabato mattina come un altro. Non ho ricordi molto precisi di quel weekend (perché dovrei averne, dopotutto?), se non che il pomeriggio andammo a una mostra di Peter Hujar al Jeu de Paume, che camminammo a lungo alle Tuileries e che la sera mangiammo in uno di quei bistrot discutibili di cui all’epoca ero solito lamentarmi.

Qualche giorno dopo, un mercoledì, mentre sudavo sul vogatore della palestra, mi venne in mente che l’indomani ci sarebbe stata la presentazione di un volume di Link per cui avevo scritto un pezzo, e mi parve una buona idea decidere di andarci, dato che non lo avevo mai fatto. Tornai a casa, feci i biglietti del treno e prenotai una stanza in una casa vicino ai Navigli. La mattina dopo, all’alba, ero sul treno Parigi-Milano, il pomeriggio entravo in questa casa che si sarebbe rivelata una casa di pazzi precisi, e la sera ero alla libreria Verso gremita di gente, a salutare vecchi amici e a conoscere finalmente colleghi e vicini di indice come Luca, Fabio, Stefania, Arnaldo, o persone come Diletta e Tommaso che erano venute semplicemente ad assistere alla presentazione, come all’epoca si faceva.

Malgrado una certa ormai consuetudine a parlare in pubblico, quando mi passarono il microfono ebbi qualche momento di incertezza, per due motivi: uno) ero seduto su uno sgabello scomodissimo in cui non sapevo che farmene delle gambe (“Accavallo come fossi a Galagoal?” “Cerco di restare in equilibrio tenendo però le gambe aperte e facendomi accusare di manspreading?”); e due) la persona che avevo di fronte era Franco La Cecla, uno che incute timore già dal nome (fran-co-la-ce-cla), figuriamoci averlo davanti. E così, mentre parlavo (“euheuh sì lo zapping è ancora necessario, in fin dei conti cos’è che facciamo quando saltelliamo di story in story su instagram?”), decisi di rivolgermi esclusivamente a una ragazza seduta tra il pubblico che annuiva a-ogni-mia-parola e tutto andò per il meglio (quasi tutto: alla fine avrei voluto fermarmi a parlare con La Cecla di Palermo, Parigi e delle conoscenze in comune, ma La Cecla era già altrove, là, ovunque). Poi chiacchierammo, bevemmo, e finimmo a mangiare una bella pizza crudo e rucola a mezzanotte passata, all’epoca si faceva.

Prima della partenza, il sabato, decisi di consumare le poche ore libere girando per librerie. Finii al Libraccio e, mentre cercavo sotto la L un romanzo di Lethem, trovai un libro proprio di Franco La Cecla: Falsomiele: Il diavolo, Palermo, edito da due punti, una piccola casa editrice con sede nientemeno che in via Siracusa a Palermo. Mi sembrò una giusta coincidenza e lo comprai, assieme a una vecchia edizione di un libro di Yates. 

Andai alla stazione, mi sistemai sul treno, mi lamentai tra me e me dei bambini, dell’aria condizionata, della gente, di tutto, e poi iniziai a leggere il libro di La Cecla. In esergo c’era un lungo estratto da un romanzo di Juan José Saer, L’indagine. Fu una folgorazione, mi parve una delle cose migliori che avessi mai letto sull’essere adulti e su quella che chiamiamo terra natale. Sembrava scritta apposta per me, sempre un po’ di qua e un po’ di là, laterale e sullo sgabello, transalpino in un senso e transalpino nell’altro. E così, mentre il treno si dirigeva verso la frontiera con la Francia, pensai che quelle poche ore a Milano erano state proprio belle, le coincidenze, le chiacchiere, e i libri come al solito a fare da collante alla vita, alle persone, alle cose veramente spensierate, come all’epoca si faceva.

Palermo alla fine del mondo

E quando i terrestri avranno quasi esaudito il desiderio di estinzione, “come un branco di bufali che corsero compatti prima di lanciarsi da un burrone”, e rimarrà un solo essere umano a vagare tra terre morte e inospitali, e camminerà camminerà camminerà all’inutile ricerca di qualcosa per sfamarsi, e infine giungerà in questo luogo dove perse le scarpe pure il Signore, sulla costa palermitana un tempo sì rigogliosa, e vedrà questo tubo arrugginito, e si avvicinerà, e stringerà gli occhi a fessuretta, e, con il fievole fiato che gli sarà rimasto in corpo, pronuncerà a voce alta l’ultima parola prima di spegnere l’interruttore dell’umanità, bene, quella parola sarà: suca.